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Ritratti di guerra: quando le immagini sono più eloquenti delle parole

In uno spazio-tempo turbato come il nostro, sembra difficile percepire l’utilità di un’espressione artistica come la fotografia, eppure ciò che i fotoreporter di guerra stanno compiendo, in una terra poi non così lontana, è una missione a testimoniare e denunciare ciò che, si spera, trovi presto un epilogo.

Nel corso della storia il loro ruolo è andato poco a poco confermandosi, di pari passo a quello di artisti, intellettuali e scrittori che, muniti di encomiabile sensibilità e audacia nascoste dietro un timido click, scendono in prima fila per combattere l’atrocità della guerra.

Ma facciamo un passo indietro: quando nasce questo mestiere tanto crudo quanto essenziale? Il capostipite è da ricercarsi in Roger Fenton, che documenta la guerra in Crimea nella seconda metà dell’Ottocento; dopo il finanziamento dal Ministero della Guerra e dalla Corona, Fenton parte con il suo personale carro fotografico allestito ad hoc per immortalare il conflitto.


Roger Fenton (1819-69), Valley of the Shadow of Death, 1855, (c) Royal Collection Trust


Le immagini prodotte sono di taglio documentaristico: essendo infatti affiliato alle truppe inglesi per conto della Corona, Fenton decise di non contemplare gli aspetti più terribili della guerra, poiché la sua missione mirava alla propaganda della spedizione.

Famose sono le foto comprese nella serie The Valley of the Shadows of Death, che mostrano una valle desolata e disseminata di palle di cannone, emblema della distruzione bellica anche se priva - apparentemente - di scene forti e violente. Fenton sceglie dunque di affrontare un tema così delicato ma allo stesso tempo orrendo appoggiandosi alle conseguenze riversate sul paesaggio, come faranno anche altri fotografi contemporanei, uno per tutti Steve McCurry.

Di tutt’altro imprinting le immagini di Robert Capa, forse il fotografo di guerra più conosciuto nella storia, che tra i tanti conflitti bellici ha documentato anche la seconda guerra mondiale. Le sue foto narrano di storie piene di dolore e fame, di scompiglio e disperazione, proprio come si può avvertire dallo scatto che gli assicurò la fama The Falling Soldier, ambientato nella guerra civile spagnola e di cui ancora oggi si discute l’autenticità.


Robert Capa, The falling soldier, 1936, © International Center of Photography / Magnum Photos


Uno scatto che quasi disegnò il suo triste destino: Capa militò al fronte assieme ai soldati, e di questa morte perì colpito fatalmente da una mina antiuomo.

Compiendo un volo pindarico per arrivare ai giorni nostri, da settimane ormai viviamo bombardati da notizie e immagini che ci riportano immediatamente ai combattimenti in Ucraina. Questa è una guerra come tante altre, sì, ma forse più delle altre sotto l’occhio di tutti: dai nostri dispositivi mobili, infatti, siamo capaci di documentarci in tempo reale per mezzo dei social avidi di news, ma la linea di demarcazione tra realtà e finzione è sottilissima.

Ciò che prolifera a ritmo quasi preoccupante è, in effetti, l’innumerevole mole di materiale alterato, volto a mistificare l’oggettività dei fatti di cronaca. «Sono fermamente convinta che il fascismo non avrebbe preso il potere in Europa se ci fosse stata una stampa veramente libera che potesse informare la gente invece di ingannarla con false promesse», diceva la fotografa statunitense Bourke White a proposito del ruolo della fotografia in circostanze critiche come quelle del secolo scorso, in preda alla seconda guerra mondiale. Parole che riecheggiano senza tempo anche oggi, immersi in una società straripante di immagini ma che troppo spesso non ne assicura la validità.


Robert Capa, Soldati americani curano un compagno ferito, Sicilia, 1943, © Robert Capa © International Center of Photography/Magnum Photos


In questi giorni cercare un resoconto visivo obiettivo diventa quasi impossibile, ma ci sono alcuni tra i migliori fotografi in circolazione che si trovano in prima linea sul fronte di guerra e aggiornano pressocchè quotidianamente i loro canali instagram e twitter.

La segnalazione che facciamo non deve considerarsi una lista esaustiva, poiché sicuramente altri giornalisti, cittadini o fotografi ucraini stanno attualmente documentando gli eventi per una ricostruzione quanto più veritiera possibile, ma mira piuttosto a - citando una recente intervista al fotografo Paolo Ciregia - «prendere le distanze da tutto l’odio gonfiato dai media per evitare di cadere in semplici squadrismi da stadio.»

Emilio Morenatti, fotografo spagnolo celebre per essersi occupato dei contrasti a Gerusalemme, Gaza, Pakistan e Afghanistan - che gli è costato anche l’esplosione della gamba sinistra per una bomba - attualmente si trova in Ucraina e documenta la risposta della popolazione alla guerra in atto.

Protagonisti delle sue immagini, bambini, donne, soldati negli istanti più intimi, in bilico tra la stanchezza fisica e mentale e la volontà di sperare in qualcosa di migliore.

Anche la fotoreporter Lynsey Addario è al fronte, e ci mostra la vita affettiva ai tempi della guerra, con un focus specifico sulla condizione delle donne e madri coinvolte nei conflitti assieme ai loro bambini piccoli. La sensibilità di Addario è tangibile, quasi sicuramente dovuta alla sua personale esperienza come reporter dalle zone belliche durante i mesi della propria gravidanza.

Iconica ormai la foto della donna dal viso coperto di sangue a seguito dell’esplosione del suo appartamento, che Wolfgang Schwan ha immortalato nel suo scatto: la potenza dello sguardo, che ci riporta immediatamente ai ritratti di guerra delineati anche dal già citato McCurry, bastano a congelare l’osservatore. Tanto che il quotidiano Sun vi ha accostato parole crude assieme al volto di Putin «Her Blood On His Hands».

Alcuni fotografi, come l’americana Erin Trieb o l’australiano Chris McGrath, hanno premura di evidenziare l’assoluta forza e calma della gente ucraina che, nonostante il caos e la paura, si dimostra resiliente. Nei loro scatti emergono istanti coinvolgenti ed empatici, tra abbracci sinceri e baci appassionati di ragazzi che debbono separarsi.

È una fotografia decisamente senza censure, quella dell’ucraino Evgeniy Maloletka, che colpisce proprio come un proiettile, con la pretesa di non adombrare nemmeno i dettagli più tragici e dolorosi, come la morte di un figlio.

«Usare la macchina fotografica era quasi un sollievo: poneva una sottile barriera tra me e l’orrore che mi trovavo di fronte»: un arma a doppio taglio pertanto, quella del mestiere del fotoreporter di guerra, che non perde di certo la sua aura in un mondo gestito dal digitale, anzi lo arricchisce di fatti di cronaca, pronto a ricordarci - come suggeriscono le parole di  Bourke White - la doppia faccia del mondo: paradiso e inferno al tempo stesso. 




Sara Di Sabatino viene da un piccolo paese d’Abruzzo, sotto il Gran Sasso. Si specializza in Arti Visive presso l’Alma Mater di Bologna. Ha collaborato con una galleria d’arte a Ferrara, occupandosi dell’allestimento e catalogazione d’archivio. Nutre una spiccata passione per la scrittura, che concilia con musica alle orecchie e lunghe passeggiate in montagna. “Nomade per inclinazione”, ha svolto un anno di studio all’estero e parla fluentemente lo spagnolo e l’inglese.