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Immagini di resistenza: l'arte contro la guerra

Il pittore francese Henri Rousseau, conosciuto come il Doganiere (1844-1910) alla fine dell’Ottocento immaginava la guerra come una figura mostruosa che cavalca furiosamente il suo destriero, seminando morte e distruzione al suo passaggio.


Henri Rousseau, La Guerra, 1894 circa, Parigi, Musée d'Orsay. © Musée d'Orsay


Una rappresentazione allegorica della guerra di gusto naïf, ma anche una sua dissacrazione: i cadaveri cosparsi sul suolo nel dipinto di Rousseau non sono che il frutto dell’insensatezza e della brutalità delle azioni umane, restituendo nella sua tragica semplicità un’immagine efficace della furia bellica.

L’incomprensione profonda che i conflitti, ovunque essi si combattano, gettano sull’umanità che li vive o li osserva da lontano ha sempre fatto sì che artisti, intellettuali e letterati colmassero tale vuoto di senso attraverso le loro opere, restituendo alla realtà un significato perduto e incidendo nella memoria collettiva e visuale una traccia del dolore e della sofferenza di intere comunità.

Le opere d’arte, infatti, non solo svolgono una funzione memoriale, di monito o denuncia delle atrocità della guerra, ma possono imporsi come veri e propri simboli di resistenza, dando forma intellegibile e universale alla condizione di chi la guerra la subisce.

Così, nei primi decenni del XIX secolo, Francisco Goya (1764-1828), pittore ed incisore, documenta le tragiche fasi della guerra d’indipendenza spagnola in una serie incisa dal titolo I disastri della guerra.

Il mezzo grafico, con le sue linee dure e la riduzione del colore al solo monocromo, consente a Goya di descrivere in modo analitico le drammatiche tappe della liberazione della Spagna dall’occupazione napoleonica, facendo di questa serie un antecedente dei moderni reportage di guerra.

Ma, evidentemente, alcuni episodi si impressero nell’animo del pittore segnandolo in modo profondo, tanto da far sentire l’esigenza di dedicar loro opere autonome.

Ne rappresenta il caso più noto il quadro raffigurante La fucilazione del 3 maggio 1808, che ritrae il massacro dei ribelli spagnoli, rappresentati dal pittore come un’umanità varia e drammatica, messi al muro e fucilati da una colonna di soldati francesi, le cui canne dei fucili si susseguono in modo ritmato, gelido, e tristemente realistico.


Francisco Goya y Lucientes, 3 maggio 1808, 1814, Madrid, Museo del Prado. © Museo del Prado


Quell’immagine dovette significare molto per la cultura e l’identità iberiche, a tal punto che Pablo Picasso (1881-1973), anch’egli spagnolo, ne ripropose l’impianto compositivo in una delle opere più importanti della sua produzione matura. Massacro in Corea è, infatti, un dipinto che Picasso realizzò negli anni Cinquanta per commemorare le vittime del massacro di Sinchon, consumatosi nel corso della guerra di Corea, nel quale persero la vita 35.000 civili, tra cui donne e bambini.


Pablo Picasso, Massacro in Corea, 1951, Parigi, Musée National Picasso. © Musée National Picasso


Ancora una volta, la scena è impostata secondo un principio duale, che oppone le vittime ai carnefici, a dimostrare come ad oltre un secolo di distanza dalla tela di Goya le atrocità della guerra continuino a reiterarsi nel corso della storia. Sarà però un altro celebre dipinto di Picasso, a imporsi nell’immaginario collettivo come un’icona del dolore e della tragicità della guerra: si tratta di Guernica, dal nome della cittadina dei paesi baschi che nella primavera del 1937 fu oggetto di un disastroso bombardamento da parte delle forze anti-repubblicane nel corso della guerra civile spagnola. La scelta cromatica ricade sulla scala dei grigi, e la brutalità di quell’evento si traduce in una realtà deforme, devastata dalle armi.


P. Picasso, Guernica, 1937, Madrid, Museo nacional centro de arte reina Sofia. © Museo nacional centro de arte reina Sofia


La carica espressiva e il messaggio di condanna a qualsiasi forma di guerra fanno di quest’opera un nodo cruciale e rivoluzionario dell’intera storia dell’arte del Novecento. In un secolo costellato di guerre, genocidi, oppressioni, e atrocità, la grandezza di Guernica risiede nella capacità di dar forma alla sofferenza dell’uomo in modo universale ed archetipico, prescindendo dalla storia e dalla geografia particolari, per levare un grido corale contro la barbarie di qualsiasi conflitto.

A differenza della guerra, infatti, l’arte possiede un potere generativo, di diffusione e filiazione, innescando un processo di costante creazione e trasformazione di forme, idee, oggetti: Guernica ispirò le nuove generazioni di artisti che volevano opporsi alla violenza della guerra con la loro arte, attraverso un linguaggio espressivo nuovo che fosse d’impatto per il pubblico.

Enrico Baj, Renato Guttuso e molti altri artisti di tutto il mondo inclusero nelle proprie opere citazioni puntuali del dipinto di Picasso, manipolandolo e reinterpretandolo, dimostrando come tanto la storia dell’arte quanto la storia dell’uomo, nelle sue pieghe più drammatiche, siano soggette a corsi e ricorsi storici, da cui difficilmente si è in grado di imparare.

È proprio con lo scopo di tenere memoria di quanto la guerra abbia punteggiato nei secoli la storia di diversi popoli che nel 2017 l’illustratore statunitense Seymour Chwast (New York, 1931) dà alle stampe un libricino d’artista dal titolo At war with war: 5000 Years of Conquests, Invasions, and Terrorist Attacks.


Seymour Chwast, Rwanda Civil War, 1994 in At war with war, 2017 © Seven Stories Press


Si tratta di un progetto editoriale che conclude un percorso artistico protrattosi lungo tutta la carriera dell’autore, da sempre coinvolto in prima linea nella realizzazione di contenuti che promuovessero una visione pacifista.

In questo libro, dalle illustrazioni caricaturali, grottesche e quasi infantili, egli ripercorre la storia dell’umanità attraverso i conflitti che l’hanno travolta, tracciando una cronologia figurata dei più drammatici episodi di violenza, cui ancora oggi continuano ad aggiungersi ulteriori tasselli.

In queste settimane la guerra è tornata al centro delle nostre riflessioni e preoccupazioni, e si osserva come allo scontro militare si sovrapponga una guerra culturale, in cui le politiche di scambio delle opere d’arte tra un paese e l’altro sono state significativamente ripensate. Ieri come oggi, infatti, le opere si impongono come corpi vivi, oggetti-simbolo in grado di stimolare le coscienze, aprire a nuove prospettive di dialogo e costruire un ponte tra diverse comunità: comprometterne la movimentazione equivale, per tanto, a disconoscere tale potere dell’arte, e a negare la possibilità che la cultura possa essere foriera di pace.



Ilaria Degni è laureata in Storia dell'Arte presso la Sapienza - Università di Roma. I suoi interessi spaziano dall'età moderna al contemporaneo, con una particolare attenzione per il contesto artistico romano. Si è occupata di didattica e curatela per varie realtà culturali. Attualmente i suoi studi sono orientati ad indagare le forme visuali provenienti da diverse aree del mondo e l’applicazione delle teorie post-coloniali in ambito storico-artistico.