icon Ritorna al Blog

Picture or it didn’t happen: la fotografia come ontologia del sé e del mondo

Garry Winogrand, fotografo newyorchese classe 1928, è famoso per aver immortalato Marilyn Monroe sulla grata durante il set di The Seven Year Itch (Quando la moglie è in vacanza).


Garry Winogrand, Marilyn Monroe, “Seven Year Itch” set, New York City. Fonte: MoMA


Ma fu soprattutto l’iniziatore di quella caccia all’esistenza, per le strade di New York (e Los Angeles), nei suoi attimi in cui si decide qualcosa – o, con le parole di Barthes, in cui «il Fotografo ha colto il momento giusto, il kairos del desiderio».

Padre della street photography, insieme a Lee Friedlander e Diane Arbus, Winogrand camminava per la città (quasi sempre New York) – soprannominato infatti the walker e scattava foto con l’orizzonte storto, perché la composizione della foto era già un allontanamento dall’accadimento da fotografare. Non fotografava per immortalare bizzarri episodi di vita o per narrare l’alienante routine della frenetica vita metropolitana. Dopo Simmel e Lang, la metropoli era già stata svelata per quello che era, una simulazione persistente della vita di fabbrica e della produzione industriale.

Che cosa aveva ancora da dire la vita urbana, dunque? Winogrand fotografava il mondo, tutto ciò che il mondo potesse mostrare, in maniera compulsiva, frenetica (pare abbia lasciato circa sei mila rullini alla sua morte, avvenuta a soli 56 anni). Quando gli chiesero perché fotografava tutto, egli rispose: «Fotografo per vedere come il mondo appare nelle fotografie».

Winogrand aveva colto la ragione della fotografia, che Barthes – che dedicò un intero libro alla filosofia della fotografia (La camera chiara) – avrebbe definito filosoficamente: «L’essenza della Fotografia è di ratificare ciò che essa ritrae». Ma come fa? Già mezzo secolo prima di Barthes, Heidegger lo aveva chiarito: i dispositivi tecnici hanno «il carattere dell’intimità senza sorprese», un po’ come un paio di occhiali posti lì sul naso, a pochi centimetri dagli occhi, che finiamo per non notare più e che tuttavia ci sono necessari per guardare il mondo.

Che sia questo il destino della macchina fotografica? La digitalizzazione del mondo, il cui potere si regge sulla miniaturizzazione dei dispositivi tecnici, che così diventano mobili, dunque indossabili come occhiali da vista, sembra dare ragione ad Heidegger – e, per estensione, a Benjamin.

L’esperimento di Philippe Kahn, che metteva insieme per la prima volta un cellulare e una fotocamera per condividere la foto di sua figlia appena nata, schiudeva orizzonti nuovi: lo smartphone ci rendeva improvvisamente capaci di fotografare tutto, sempre, ovunque e, finalmente, ciò che più amiamo fotografare: noi stessi. In effetti, tra i cinque tipi di fotografie più popolari (cioè più caricate e postate sui social), al primo posto ci sono i selfie (poi seguono gli animali domestici e il cibo).


Philippe Kahn, La prima fotografia inviata da un cellulare. Fonte: Time


Così fotografiamo il cibo che mangiamo, ma in realtà ci nutriamo delle immagini del cibo. Lo aveva profetizzato Debord: la nuova merce è l’immagine, non più il prodotto. Compriamo nuovi oggetti non per la loro funzione, ma per il loro potere di rappresentazione, per la loro ostentazione. In questo senso lo statuto di realtà è certificato dall’essere non più soltanto riproducibile – con buona pace di Benjamin –, ma dall’esserlo nel modo più spettacolare possibile. Il luogo che visitiamo perché è instagrammabile risponde al requisito della società dello spettacolo.

Instagram è la crasi perfetta, l’istantanea, la foto istantaneamente pubblicata, la realtà velocemente forgiata in una galleria d’arte da scorrere rapidamente e ai cui contenuti reagire altrettanto prontamente. È ciò che Barthes chiamava lo studium di una fotografia, il semplice interesse per una foto o per il tema mostrato, il regno del «mi piace/non mi piace, I like/I don’t. Lo studium appartiene all’ordine del to like».

Il problema della fotografia istantanea, quella social, è che spesso si ferma allo studium, manca di un punctum, qualcosa che pungola, che stimola e che non appartiene alle intenzioni del fotografo, né al contenuto principale della foto: si tratta di un elemento di rottura, non necessariamente di contraddizione; non è il bizzarro volutamente posto, ma quello più casuale. Se lo codifico immediatamente, se subito ne colgo la stranezza, allora non punge, non vibra.

«Molto spesso il punctum è un particolare, vale a dire un oggetto parziale», un elemento secondario, non intenzionale, che si trova nella foto «per caso e senza scopo», che tuttavia attira la mia attenzione di spettatore, positivamente o negativamente: «Il punctum non si cura della morale o del buon gusto; il punctum può essere maleducato».

In ogni caso, l’elemento parziale che mi attrae non deve fare parte della composizione, del progetto del fotografo, ma essere una sorta di co-presenza, di fuori-campo, che trasforma il senso della fotografia. Per spiegarlo, Barthes distingueva la fotografia pornografica, emblema della fotografia unaria, in cui c’è solo studium, c’è un unico oggetto, dalla fotografia erotica, in cui il sesso spesso non è nemmeno mostrato.


Robert Mapplethorpe, Roger in Fishnets. Fonte: Artnet


La fotografia per Barthes è una riproduzione di particolari: questa spiaggia, questo paio di scarpe, questa giornata sulla neve. Mostrando le foto, il racconto sarà sempre «questo sono io…», «questo è mio fratello…«, «qui ero…». La fotografia è un linguaggio deittico, il cui lemma essenziale è sempre «guarda», o nelle varianti «guarda qui», «guarda questa foto».

In effetti, la fotografia, nel riprodurre la realtà, la fa guardare, la esibisce, la manifesta. La fotografia è l’epifania del reale, delle sue immagini che, lentamente sviluppate, emergono da una condizione latente, nascosta, e si pongono come reale. Lo sviluppo fotografico è un’aletheia, una verità che viene svelata per poter essere finalmente guardata.

La fotografia è l’inizio dello spettacolo e dello spettatore. In effetti, Barthes individuava nella fotografia tre elementi: l’Operator, colui che scatta, lo Spectator, colui che guarda e, infine, lo Spectrum, cioè l’oggetto fotografato, l’immagine stessa che possiamo guardare.

L’analisi di Barthes all’inizio degli anni Ottanta invitava già a porsi una serie di interrogativi: per esempio, qual è il rapporto tra la fotografia e lo spettatore? Oppure, qual è la consistenza ontologica dell’oggetto fotografato? E oggi, con il progresso tecnologico che propone nuovi dispositivi fotografici e nuove piattaforme di pubblicazione, altre domande emergono: cosa accade, per esempio, quando tutti e tre gli elementi coincidono, come in un selfie?


Elliott Erwitt, Self Portrait. Fonte: Monovisions


Benjamin aveva colto solo un lato della medaglia, non il suo rovescio: è vero, la riproducibilità tecnica annichilisce l’aura dell’opera d’arte, ma, per converso, nell’epoca della Weltbild, ipostatizza la realtà.

È la fotografia a certificare la realtà, a darne consistenza. In un mondo fatto di immagini, la riproducibilità tecnica è la garanzia che il materiale di cui è costituita quella realtà è un’immagine, una proiezione, uno sviluppo, ripetibile in loop. La dagherrotipia, come origine della fotografia, aveva questo serio limite concettuale (insieme ad altri di natura più tecnica): l’immagine raffigurata non poteva essere riprodotta e la sua durata era limitata.

Barthes precisava che quel loop era però ancorato ad un particolare: «Ciò che la Fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo solo una volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente». Non era soltanto il riconoscimento kierkegaardiano dell’impossibilità esistenziale della ripetizione, ma qualcosa di più: era la trascendenza dell’immediato in mediato.

Il medium trasformava il fluire esistenziale in normazione, conferendogli validità istituzionale. Per questo fotografiamo: per portare a eternità – immortalare – un momento e sancirne la realtà. Fotografiamo le cose che ci stanno davanti, che vediamo già, seguendo l’intenzione di Winogrand, come dire, «per vedere l’effetto che fa».

Le lenti della fotocamera diventano le lenti da vista e non distinguiamo più l’oggetto dalla sua rappresentazione fotografica: come ricordava Fletcher, finiamo per essere come pesci, che sono gli ultimi ad accorgersi dell’acqua. Il vecchio procedimento di immersione della pellicola nel bagno di sviluppo, con il quale l’immagine latente veniva rivelata, ne era un buon paradigma.

Così, la fotografia certifica lo statuto ontologico di ciò che è fotografato, secondo lo slogan picture or it didn’t happen. Come precisa Barthes, «in un primo momento, per sorprendere, la Fotografia fotografa il notevole; ben presto però, attraverso un ben noto capovolgi­mento, essa decreta notevole ciò che fotografa. Il qualunque cosa diventa allora il massimo sofisti­cato del valore».  

La fotografia certifica la realtà perché, diversamente dalla pittura o dalla scultura, ha sempre quello che Barthes chiama Referente: il Referente della Fotografia non è l’oggetto a cui l’immagine rimanda, ma l’oggetto reale che è stato fotografato, «la cosa necessariamente reale che è stata posta dinanzi all’obbiettivo, senza cui non vi sarebbe fotografia alcuna. […] Nella Fotografia […] io non posso mai negare che la cosa è stata là».

E così, non posso negare nemmeno che io sia stato là: pertanto, la fotografia certifica non solo e non tanto che la cosa è stata là, ma, soprattutto, che io sono stato là. La fotografia, come su un documento di riconoscimento, attesta che siamo stati e poco importa se non siamo più. Perciò, «il tratto inimitabile della Fotografia (il suo noema) è che qualcuno ha visto il referente (anche se si tratta di oggetti) in carne e ossa, o anche in persona. D’altronde, storicamente parlando, la Fotografia è nata come un’arte della Persona: della sua identità».


Garry Winogrand, Women are beautiful. Fonte: Lens Culture


La fotografia, come su un documento d’identità, attesta la nostra esistenza oggettiva: la fotografia ci trasforma da Leib in Körper, secondo la distinzione fenomenologica. Passiamo da viventi ad esistenti, da soggetti ad oggetti. In generale, quando qualcuno ci fotografa e ne siamo consapevoli, ci mettiamo in posa, cioè – stando a Barthes – «ci fabbrichiamo istantaneamente un altro corpo, ci trasformiamo anticipatamente in immagine».

La fotografia rende visibile lo scostamento tra l’io vissuto e l’io veduto e i due io non coincidono mai, perciò ne segue un certo disagio, che ci fa subito controllare il risultato dello scatto fotografico: «Come sono venuto?», «Ma sono venuto con gli occhi chiusi!» sono le prime attestazioni di quello scollamento di coscienza.

In effetti, la fotografia «è l’avvento di me stesso come altro», è l’esecuzione tecnica della funzione magica già svolta dallo specchio (si noti la radice comune a specchio, spettacolo, spettatore). Ecco il corto circuito: il tutto-fotografo fotografa per poter guardare, fotografa per poter essere spettatore.

Il selfie non è il mero prepararsi a godere dello spettacolo che noi stessi abbiamo allestito: ci fotografiamo per guardarci, per avere la prova che esistiamo in quanto e finché siamo immagini. La Fotografia è così anche malinconia, perché è ciò che Ortega y Gasset faceva valere per la Storia, «la scienza della relazione con i morti». In realtà, la fotografia non ristabilisce il non-più, non riporta in vita i morti: «L’effetto che essa produce su di me non è quello di restituire ciò che è abolito (dal tempo, dalla distanza), ma di attestare che ciò che vedo è effettivamente stato».

La malia nostalgica della fotografia è nel suo porre dinnanzi a me ciò che è stato e che non c’è più: io che da piccolo correvo verso il mio adorato nonno, sorridente; io che soffiavo sulle candeline per il mio diciottesimo compleanno; l’espressione soddisfatta sul mio volto il giorno della laurea; e, poi, sì, ero lì, ero stato lì, il giorno in cui tenevo in braccio mia figlia per la prima volta. Eravamo entrambi lì.

Dev’essere questa, dopo tutto, la magia della fotografia: che nel certificare le esistenze – l’esser stato – mette in mostra non l’autenticità del momento – spesso per gli scatti ci si mette in posa e molte fotografie sono attentamente pianificate – ma l’autenticità della vita vissuta, del riconoscere che «io c’ero», «ero lì», o del domandare «e qui dov’eravamo?». Talvolta, il backstage di una campagna fotografica attesta più autenticamente l’accadimento.


Rodney Smith, Autoportrait. Fonte: Boum! Bang!


Del resto, l’amara sensazione della vita che finisce è esattamente questo, del suo non poter più scattare un selfie per attestare di essere da qualche parte, il suo non poter più «esser là», il suo non poter più dire «io c’ero». Questo era anche il senso dello sbiadire di Marty McFly in Ritorno al futuro: se non esisti in foto, non esisti in vita. Dev’essere questo il profondo senso della fotografia: certificare a noi stessi e a tutto il mondo che siamo semplicemente stati, infischiandocene – un po’ sartrianamente – di ciò che siamo stati. O lasciando agli altri il faticoso vano tentativo di capirlo.



Massimo Vittorio è PhD in Filosofia e insegna Antropologia Filosofica ed Etica della Comunicazione all’Università degli Studi di Catania. È stato Senior Research Fellow presso il St. Olaf College, USA. È direttore del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica e fondatore di Etica-mente, uno spazio di discussione filosofica multidisciplinare. È Curriculum Developer per l’IBO e collabora con riviste, blog e centri di ricerca nazionali e internazionali. Specializzato in questioni di etica contemporanea, si occupa in particolar modo di analizzare la natura dell’essere umano in relazione alla tecnica e allo spazio e di comprendere come il progresso tecnologico influenzi la comunicazione, l’arte, l’essere, l’agire.